09 settembre, 2013

Il domenicano bianco

“Il domenicano bianco” (Die weisse Domenikaner, 1921) è un romanzo dell’autore austriaco Gustav Meyrink, celebre per “Il Golem”. Il protagonista, Cristoforo Colombaia, è l’ultimo erede di una stirpe in cui il segreto della dissoluzione è trasmesso di padre in figlio. Un’antica sapienza orientale fluisce fra le volute del racconto, ora intimista ora mistico ora surreale.

Alcune storie vivono del canovaccio, altre di personaggi, altre ancora di atmosfere. “Il domenicano bianco” è un romanzo di nomi, densi di reminiscenze letterarie, di evocazioni simboliche. Ofelia è il nome con cui prendono forma la madre di Cristoforo e soprattutto la diafana fanciulla di cui egli si innamora perdutamente. E’ un amore sovrumano, come sublime è ogni pensiero del protagonista. Egli pare muoversi nella regione di penombra tra la realtà e l’immaginazione, dove l’immaginazione ha i contorni della follia, mentre la realtà (quella vera) è oltre il tempo e lo spazio.

“Il domenicano bianco” è opera iniziatica. Nondimeno più delle pagine dottrinali sull’alchimia, apprezziamo le indimenticabili descrizioni della natura: il fiume su cui aleggiano le nubi del crepuscolo, gli interni spogli dove una luce morbida avvolge le suppellettili, il camposanto con le rose che sprigionano la loro struggente fragranza. Come dimenticare poi la fosca raffigurazione della seduta spiritica nella casa del falegname, padre di Ofelia?

L’intreccio oscilla tra un passato ancestrale ed un presente stranito, fra episodi drammatici e riflessioni sulla vita, la morte, il destino, l’umanità. La trama non ha un vero sviluppo né centro, poiché lo scrittore vuole prospettare “soggetti di trasmutazione simbolica” (.J. Evola), non avvincere con trovate romanzesche. Le svolte narrative sono sincronismi, snodi lungo l’itinerario esoterico. Meyrink prova a trascendere i confini del sottogenere (gotico?) per aprire una breccia nel non-senso della “vita terrena che è un continuo partorire la morte”.

Si cerca un sentiero iniziatico che conduca alla liberazione, si guarda con distacco all’esistenza terrena, alle sue innumerevoli sofferenze e alle sue rare gioie. Le virtù eroiche significano salvezza, spiritualizzazione della materia.

Spesso, però, l’austero ascetismo e l’anelito all’eterno naufragano sugli scogli del fato. L’ideale non è il reale. Meyrink, perduto l’adorato figlio Harro, pochi mesi dopo si lasciò morire assiderato. Era il 1932.


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